La paura del dentista è un aspetto con cui tutti dobbiamo fare i conti: professionisti, operatori sanitari, pazienti. È una paura ancestrale, probabilmente legata al fatto che la bocca è un’area del viso molto preziosa: infatti è fondamentale per l’essere umano per comunicare, respirare, alimentarsi ed esprimere le proprie emozioni quindi, è anche una zona molto intima! Inoltre, alle origini della nostra professione si interveniva sulle arcate dentarie compromesse senza alcun tipo di sedazione con le compromissioni stesse che già davano un quadro di sintomatologia algica importante.
Molti di noi sottovalutano il lato prettamente umano e comportamentale nel nostro lavoro eppure, per ovvie ragioni, noi dobbiamo instaurare un rapporto estremamente intimo con i nostri pazienti, perché passiamo molto tempo con il nostro viso ad una distanza veramente minima dalla loro cavità orale, quindi dal loro viso. Nella mia pratica clinica, ormai ventennale, i pazienti odontofobici di vario grado sono circa il 70%. È difficile fare una classificazione di tutti loro in quanto la paura varia molto da individuo a individuo e a seconda del contesto, uno stesso paziente può manifestare più o meno stress. In generale le variabili sono molteplici e vanno ricercate anche nell’ambiente e nell’equipe tutta.
La paura si manifesta immediatamente fin dal primo appuntamento, dalla prima visita. Solitamente il paziente odontofobico, dopo i consueti riti di presentazione, comincia a parlare della propria situazione orale in piedi, ancora prima di sedersi sulla poltrona. Una volta seduto, non sempre dichiara il proprio disagio ma lo si percepisce da tutta una serie di comportamenti più o meno consci che si manifestano insieme o separati e in diverso grado: incrocia le gambe, tiene le mani serrate tra loro o vicino al viso (fino anche ad allargarsi le labbra o la guancia per indicarti il dente dolente), appoggia la testa nella posizione più lontana possibile dal medico, inquadra immediatamente tutto ciò che lo circonda, “suda”, arcua la schiena anziché abbandonarsi “comodo”, eccetera.
Personalmente approccio tutte le mie prime visite allo stesso modo, ovvero lascio che il paziente mi racconti da solo ciò che lo preoccupa, lascio che si disponga come preferisce (se rimane in piedi ci rimango anche io), mi siedo il più possibile di fronte a lui senza in alcun modo dare pressione. Non indosso mascherina né guanti, né tanto meno scarto gli strumenti canonici per la prima visita (ne utilizzo sempre almeno 4 e questo può da subito impressionare il paziente). Non faccio nulla, ascolto il racconto facendo poche domande: solitamente, infatti, le domande sulle abitudini personali indispongono e irritano i pazienti.
Dopo questa prima fase di avvicinamento, comincio la mia visita lentamente, spiegando tutto ciò che sto per fare in maniera dettagliata ma senza termini tecnici, mostrando tutto ciò che prendo; mai utilizzare termini come dolore, sangue, pinze, eccetera. Questo approccio mi ha permesso di avvicinarmi a qualunque tipo di paziente, adulto o bambino che sia. Le reazioni sono per lo più identiche e mi hanno permesso di curare il 95% dei pazienti.
Ritengo riduttivo pensare che la paura sia solamente verso il dolore in quanto tale, va invece ricercata in maniera più profonda. Noi come odontoiatri, molto spesso non abbiamo abbastanza tempo per effettuare questo tipo d’indagine, quindi abbiamo bisogno di opzioni più rapide. L’anestesia locale tradizionale non va inserita in queste opzioni perché evita solamente il dolore.
Oltre alle nostre capacità comunicative ed empatiche, le possibilità che possiamo mettere in pratica sono terapie farmacologiche con ansiolitici, protossido d’azoto, sedazione cosciente. Le prime due possiamo attuarle in maniera routinaria e senza supporto medico, la sedazione cosciente ha bisogno viceversa di un medico anestesista presente per tutta la durata del trattamento. La sedazione cosciente è una pratica che attuo molto di frequente quando dobbiamo affrontare un intervento lungo e complesso, indipendentemente dal grado di fobia del paziente. Questo è di aiuto a tutto il contesto coinvolto. Ricorro alla somministrazione di ansiolitici in casi rari, e quasi sempre come preparazione ad un intervento chirurgico.
La somministrazione di protossido d’azoto è utilissima in tanti i casi, adulti e bambini eccetto nelle situazioni con limitazioni soggettive date da patologie particolari. Negli Stati Uniti è utilizzato dagli anni ’70, in diversi paesi europei, mi dicono essere presente addirittura nel pronto soccorso. Lavoro spesso con pazienti trattati con protossido d’azoto ed il riscontro è ampiamente positivo.
Purtroppo esistono alcune rare situazioni dove varie patologie organiche insistono sullo stesso paziente, cosi da richiedere un trattamento ospedaliero dove si opterà per un’anestesia generale tradizionale o sempre più frequentemente una sedazione cosciente in un ambiente più controllato. Ma questi casi esulano dall’argomento; infatti la fobia, purtroppo, è un problema marginale.
Altro sistema utilizzato da diversi colleghi è l’ipnosi. Personalmente non ho mai lavorato con pazienti trattati con questa metodica, ma per quanto sia convinto che l’origine della paura abbia radici primitive, credo che possa essere un’ottima tecnica per abbassare il livello di ansia del paziente così da poter accedere poi alle pratiche odontoiatriche routinarie.
In conclusione, credo che un primo lavoro debba essere fatto su noi operatori, sulle nostre modalità, sui nostri comportamenti. Ritengo si debba fare nostro il principio che dietro i denti c’è un individuo con tutti i suoi problemi, insicurezze e schemi, e noi, in quanto medici, dobbiamo farci carico di tutto questo. Ogni tipo di supporto, se ben utilizzato, ci faciliterà questo difficilissimo compito.